30 novembre, 2024

30 novembre 1947 – Gli All Stars di Louis Armstrong, una straordinaria macchina da musica

Il 30 novembre 1947 alla Symphony Hall di Boston Louis Armstrong e i suoi All Stars tengono un concerto che cambierà la loro storia. Da quel giorno infatti quell’ensemble casuale e precario si trasformerà in una straordinaria macchina da musica malgrado l'alternarsi dei musicisti che il senso di supremazia di Louis e le circostanze imponevano. In quel lungo concerto alla Symphony Hall di Boston si assiste a un’evoluzione definitiva. Dopo anni in cui il disequilibrio interno ai gruppi che l’accompagnavano finiva per danneggiare lo stesso Armstrong, per la prima volta il grande Satchmo concretizza l’idea di avere quella base di lancio nuova che nessuno era stato in grado di garantirgli dopo gli anni Venti. Gli spettatori assistono a una sorta di miracolo. La nuova logica che governa la musica degli All Stars è quella della sfilata dei solisti su un tappeto musicale collettivo dominato dalla tecnica del dixieland. Fondamentale è il contributo di Barney Bigard e Jack Teagarden con il sottile lavoro di contrappunto che i due conoscono molto bene, provenendo da due scuole molto simili come quelle di Chicago e New Orleans. Il gioco delle parti è perfetto perchè ciascuno conosce a memoria pregi e difetti dell'altro e sa calcolare le entrate e le uscite in assolo con il massimo tempismo riempiendo poi i vuoti lasciati dalla tromba di Louis con splendidi arabeschi timbrici. Le caratteristiche della scuola creola da cui proviene vengono utilizzate da Bigard in modo più netto di quanto non facesse nell’orchestra di Ellington. A fargli da contrasto c’è la pacatezza di Teagarden che riesce alla perfezione a frenare i tempi nei quali Bigard dà impulso all'accelerazione. Armstrong può così inserirsi nel gioco dei contrappunti e se negli anni precedenti non era mai molto propenso a improvvisare negli assoli, da quel momento si lascia andare più liberamente, sicuro dalla validità dei partner. Dietro ai tre uomini della front-line, schierati secondo la formazione classica dello stile di New Orleans, il pianista Earl Hines realizza un prezioso lavoro di raccordo con tocchi rapidi e quando può esce in assolo con il sostegno del basso di Arwell Shaw e della batteria di Big Sid Catlett. In quella sera di Boston nasce una leggenda.

29 novembre, 2024

29 novembre 1889 - Richie Brunies, il leader della Reliance

Il 29 novembre 1889 a New Orleans, in Louisiana, nasce Richard Brunies. Fratello di Henry, Abbie, Merritt e George, inizia a suonare da professionista con la Reliance Brass Band, il gruppo fondato nel 1892 da Jack "Papa” Laine che ospiterà tra le sue file l'intero clan dei Brunies. Proprio Richie Brunies alla vigilia dello scoppio della prima guerra mondiale, diventa il leader della Reliance. La sua popolarità in quegli anni è vastissima. La straordinaria potenz
a di suono della sua cornetta ne fa il principale antagonista del leggendario Buddy Bolden. Richard Brunies fa poi parte, assieme ai fratelli Henry e Merritt, della Fischer's Brass Band diretta dal clarinettista Johnny Fischer, nonché dell'orchestra del trombonista Happy Schilling, una formazione da ballo non molto nota che annovera nelle sue file elementi di tutto rispetto come Johnny Wiggs, Monk Hazel, Achille Baquet, Freddie Loyacano e lo stesso Fischer. Dei cinque fratelli Brunies, Richard è l'unico che non ha registrato dischi né negli anni Venti né durante il New Orleans Revival del dopoguerra. Muore il 28 marzo 1961.

28 novembre, 2024

28 novembre 1889 – Ray Lopez, la cornetta del "jazz melodico"

Il 28 novembre 1889 nasce a New Orleans, in Louisiana, il cornettista Ray Lopez, uno degli esponenti più originali del "lato melodico" e più commerciale del jazz. Delle sue origini musicali non si sa molto. Il suo nome comincia a circolare insistentemente nell'ambiente alla fine del primo decennio del Novecento quando suona nella Reliance Brass Band di Jack Papa Laine, considerata un po' la culla dei più importanti dixielanders bianchi di New Orleans. Lì son passati tutti: da La Rocca a George Brunis, da Tom Brown a Leon Roppolo, da Larry Shields a Tony Sbarbaro. Ray si fa apprezzare per la morbidezza del suono e la capacità di adattarsi alle esigenze dell'orchestra senza rinunciare a sprazzi di intelligente iniziativa. Quando chiude con la Reliance entra a far parte della Tom Brown's Band From Dixieland, la jazz band fondata dal trombonista Tom Brown. Questo gruppo, di cui fanno parte, oltre a Brown e a lui, Larry Shields, Deacon Loyacono e Billy Lambert, nel 1915 se ne va a Chicago e trova la gloria. Il successo è tale che il gruppo si sdoppia per partecipare anche agli spettacoli di vaudeville senza pagare penali alle sale da ballo da cui è stato scritturato. Negli spettacoli si chiamano The Five Rubes, mentre nelle serate in sala riprendono il loro nome originale. Alla fine del decennio Ray se ne va e nei primi anni Venti è sulla West Coast, al California Ambassador Hotel di Los Angeles con l'orchestra di Abe Lyman, un'altra famosa formazione da ballo. In questo periodo incide anche qualche disco, ma negli anni successivi le sue tracce diventeranno sempre più confuse.



27 novembre, 2024

27 novembre 1970 - Dimenticate i Beatles, ascoltate George!

Il 27 novembre 1970 George Harrison pubblica All thing must pass, un triplo album prodotto dallo stesso Harrison con Phil Spector. Se si eccettua la deludente colonna sonora del film “Wonderwall” composta nel 1968, si tratta del primo vero lavoro da solista dell’ex Beatle. I commenti della critica sono entusiastici. «Dimenticate i Beatles, ascoltate George!» scrive Melody Maker. La foto di copertina è uno sberleffo per i suoi ex compagni. Harrison appare seduto in mezzo a un prato circondato da quattro gnomi di gesso (i Beatles?) che lo guardano. Nei primi due dei tre dischi contenuti nell'album è raccolta la produzione accumulata negli ultimi anni di contrastata vita dei Beatles. Il terzo invece è interamente dedicato a una narcisistica session con vari musicisti, da Eric Clapton a Dave Mason, a Ringo Starr e Jim Gordon che la leggenda vuole si sia svolta sotto l’effetto di droghe. È una sorta di bonus di cui non si sentiva il bisogno anche se nessuno ha il coraggio di dirlo apertamente. Gli altri due dischi del triplo album, però, sono davvero una sorta di parco delle meraviglie, a partire dal brano d'apertura, I'd have you anytime, il cui testo è stato scritto da Bob Dylan. Canzoni dolenti e colme d'emozione come Isn't it a pity si alternano ad altre scanzonate e ricche di allegria come Wah wah, che sempre la leggenda vuole sia stata scritta per sbeffeggiare Paul McCartney. Nell'album c'è anche la famosa My sweet Lord, che verrà pubblicata anche in singolo, conquisterà le classifiche di tutto il mondo, ma regalerà a George Harrison una condanna per plagio.



26 novembre, 2024

26 novembre 1955 – Lascia o raddoppia? L’Italia è un quiz

Dopo una puntata di prova trasmessa il sabato precedente, giovedì 26 novembre 1955 alle ore 21.05 va in onda sugli schermi televisivi di tutt’Italia la prima puntata di “Lascia o raddoppia?”, telequiz settimanale liberamente ispirato al programma televisivo statunitense “The 64 thousand dollar question”, presentato da Mike Bongiorno e destinato a durare fino al 1959. La regia è di Romolo Siena e la valletta è Maria Giovannini, Miss Roma, che verrà sostituita dopo qualche puntata da Edy Campagnoli. Il notaio, che sovrintende alla regolarità del gioco si chiama Niccolò Livreri. Ogni concorrente parte da una quota di duemila e cinquecento lire e la cifra può salire, attraverso un meccanismo di progressivi “raddoppi” fino al premio massimo di cinque milioni e centoventimila lire. I concorrenti hanno trenta secondi per rispondere alle domande di Mike Bongiorno e i più sfortunati vengono ricompensati con un premio di consolazione di quarantamila lire. Il programma, seguitissimo, entrerà nella storia della televisione e i partecipanti acquisteranno, grazie alle loro performance sul teleschermo, grande notorietà. Il suo successo cambia le abitudini degli italiani e porta la televisione al centro della vita sociale al punto che anche nelle sale cinematografiche il giovedì sera si sceglie di sospendere le proiezioni e di allestire speciali salette con la televisione per consentire agli spettatori di guardarsi “Lascia o raddoppia?”. È l’inizio di una vera e propria rivoluzione. Il quiz televisivo diventa un punto d’incontro per dialoghi, discussioni e anche liti. Le domande, le risposte, le gaffe di Mike Bongiorno e lo stesso atteggiamento dei protagonisti vengono vivisezionati, analizzati e commentati nelle chiacchiere nei bar, nei quartieri, nei caseggiati e sui mezzi pubblici.

25 novembre, 2024

25 novembre 1976 – L’ultimo valzer della Band

Il 25 novembre 1976 la Band di Robbie Robertson tiene al Winterland di San Francisco il suo concerto d’addio. Per l’occasione il gruppo decide di fare le cose in grande. Mentre l’impresario Bill Graham offre tacchino e pane azzimo agli spettatori, quasi si trattasse di una veglia religiosa, davanti alla cinepresa di Martin Scorsese si svolge un avvenimento eccezionale, immortalato dal film “The last waltz” e dall’album omonimo. Con la Band si alternano sul palco, nel corso di un lunghissimo concerto, Paul Butterfield, Bobby Charles, Eric Clapton, Neil Diamond, Bob Dylan, Ronnie Hawkins, Dr. John, Muddy Waters, Stephen Stills, Joni Mitchell, Van Morrison, Ringo Starr, Ron Wood e Neil Young. È il saluto del mondo del rock a uno dei gruppi più significativi di quel periodo. Affermatisi come gruppo d’accompagnamento di Bob Dylan, riescono successivamente a emanciparsi e a costruirsi una posizione autonoma circondati da un rispetto inusuale per l’ambiente. Greil Marcus così parla di loro nel suo libro “Mistery train”: «…contro le tendenze e gli stili degli anni Sessanta loro cercano le tradizioni… la loro posizione è quella di un gruppo che rifiuta la scena pop fatta di mode effimere. Sono solidi lavoratori con anni di gavetta alle spalle». Parole che vengono confermate dalla polemica innescata dal leader del gruppo Robbie Robertson nei confronti di un giornalista che accusa la Band di rincorrere sonorità più adatte ai cantautori che a un gruppo: «Vedi, amico, io sono fatto a modo mio. Voglio scrivere e cantare soltanto cose vere e che hanno un peso reale. Per questo preferisco rifarmi ai contadini che si univano ai sindacati durante la depressione che a te che vai a San Francisco a metterti un fiore fra i capelli». Le loro canzoni raccontano storie, sensazioni, paesaggi e sentimenti filtrati attraverso gli occhi delle classi subalterne, della gente semplice. La serata al Winterland sarà davvero l’ultima del gruppo. I componenti prendono strade diverse e non torneranno più sui loro passi anche se non mancheranno riunioni occasionali come quella del 1990, senza Robertson, in “The wall” nella Potzdamer Platz di Berlino.

24 novembre, 2024

24 novembre 1991 – Finisce il calvario di Freddie Mercury

Il 24 novembre 1991 è giovedì, un giorno banale per morire. Eppure proprio di giovedì, consumato da una lunga agonia, muore di AIDS Farrokh Bulsara, nato a Zanzibar nel 1946, in arte Freddie Mercury, uno dei simboli degli anni Ottanta, emblema rutilante dei Queen. Qualche tempo prima alla domanda «Come vorresti essere ricordato dai posteri, dal mondo dello spettacolo?», aveva risposto «Oh, non lo so. Non ci ho pensato... non so, morto e andato. No, non ci ho pensato e non ci penso... mio dio, ma quando sarò morto si ricorderanno di me? Non voglio pensarci, dipende da voi. Credo che quando sarò morto non m’importerà gran che, anzi a me non fregherà proprio più niente». La sua morte diventa un simbolo della battaglia contro la terribile malattia che, nell'immaginario collettivo, "uccide la diversità". Lo diventa suo malgrado, amplificando e, in parte, sublimando le incertezze e le contraddizioni della sua vicenda personale e artistica. «La nostra è una guerra contro un nemico implacabile. Non c'è tempo per le incertezze né per le giustificazioni: chi non c'è è un disertore» tuona Elizabeth Taylor, uno dei primi personaggi del mondo dello spettacolo a impegnarsi concretamente contro l'AIDS. E nella prima ondata di mobilitazione Freddy non c'è. Né lui, né il suo gruppo vivono la passione politica o l'impegno sociale. Pur essendo musicalmente nati negli anni Settanta interpretano con largo anticipo la cultura degli anni Ottanta, del disimpegno, della fuga dai valori condivisi e della ricerca estetizzante. All'epoca dell'esplosione del punk, nel 1977, i Queen sono l'incarnazione di tutto ciò che il movimento disprezza pubblicamente. Nel 1984 finiscono addirittura nella "lista nera" compilata dalle Nazioni Unite degli artisti che, fregandosene della lotta contro l'apartheid, accettano di suonare in Sudafrica. Per ben otto sere consecutive suonano a Sun City, la Las Vegas della nazione simbolo del razzismo, città che per altri loro colleghi è divenuta invece il simbolo di una battaglia planetaria contro la discriminazione razziale. Non c'è premeditazione, ma semplice disinteresse per tutto ciò che accade fuori dalla loro ristretta visuale. Professionali, senza opinioni e buoni venditori di se stessi diventano una sorta di band esemplare per il music business e anche l'omosessualità di Freddie lungi dall'essere proclamata come una bandiera di libertà viene vissuta come un fatto privato e personale come si conviene alle "persone per bene". Pur essendo campioni di vendite sono però poco amati dalla critica che considera la loro storia musicale sostanzialmente finita nel 1975 con la pubblicazione di A night at the Opera, l'album di Bohemian Rhapsody, una sorta di manifesto musicale che mescola in modo geniale hard rock, pomposità barocca e melodramma. Pochi mesi prima della morte di Mercury l'idea di un gruppo ormai arrivato alla frutta è divenuta più generale. Ciascuno dei componenti sembra più impegnato nei propri progetti individuali per far pensare a un nuovo colpo d'ala. Lo stesso Freddie coltiva con attenzione le potenzialità della sua straordinaria voce, uno strumento capace di valorizzare canzoncine di cui, senza la sua interpretazione, non rimarrebbe neppure il ricordo. In questa situazione si inserisce la morte di Freddy. Una fine straziante, che lo accomuna a moltissimi altri, e lo trasforma in un simbolo della lotta contro l'AIDS. È la catarsi. La sua mai rivendicata omosessualità si fa bandiera e il suo calvario finale diventano l'emblema di un impegno internazionale contro un morbo che ha fra i suoi più stretti e fedeli complici la discriminazione. In pochi mesi viene organizzato nello stadio di Wembley a Londra “A concert for life - Tribute to Freddie Mercury”, un grande concerto i cui proventi sono destinati a finanziare la ricerca contro l'AIDS. Centinaia di milioni di spettatori assistono all'evento, rimandato in settanta nazioni diverse, compreso anche quel Sudafrica, finalmente uscito (e non grazie ai Queen) dal lungo tunnel dell'apartheid. La vera anima dell'evento è da ricercare nel gruppo di personaggi del mondo dello spettacolo da anni impegnati su questo fronte e che hanno un'agguerrita testimonial proprio nell'attrice Elizabeth Taylor. Nessuno si nega all'invito. Sul palco allestito nello stadio di Wembley sfila l'élite della musica pop internazionale di quel periodo, dai Metallica agli Extreme, dall'ideatore di Live Aid Bob Geldof agli Spinal Tap, dai Def Leppard ai Guns N’ Roses, dall'italiano Zucchero agli irlandesi U2 in collegamento via satellite da Sacramento in California. Particolarmente emozionanti sono le esecuzioni delle canzoni di Freddie Mercury da parte di una lunga serie di amici, a partire da George Michael che canta Year of 39 da solo, These are days of our lives con Lisa Stanfield e Somebody to love insieme al London Community Gospel Choir. David Bowie esegue Under pressure in coppia con Annie Lennox mentre Elton John dedica all'amico scomparso le commoventi versioni di Bohemian rhapsody con l'aiuto di Axl Rose e, soprattutto, di The show must go on, il brano che i Queen giurano solennemente di non eseguire più dopo la morte del loro leader. La morte di Freddy esalta la solidarietà ma anche il music business che, ancor più di quando era in vita, ne sfrutta voce, immagine, registrazioni e inediti al di là di ogni immaginazione come accade con il miliardario remix di Living on my own, una disinvolta operazione commerciale priva di rispetto ma molto redditizia. Il music business oggi lo ricorda con un'alluvione di iniziative commerciali che non aggiungono nulla al suo valore artistico. C’è chi preferisce ricordarlo per quello che era: un'artista con luci e ombre, una voce unica, ma soprattutto un uomo, una persona, uno fatto di carne e ossa come noi che è morto di AIDS dopo un lungo calvario di sofferenze.



23 novembre, 2024

23 novembre 1950 - Richard Raux: la musica non è solo l'America

Il 23 novembre 1950 nasce il sassofonista Richard Raux. Creolo, passa l'infanzia nel Madagascar, un luogo dove la musica si abbevera alle tradizioni africane, indiane e cinesi. Questa ricchezza sonora dominata dal ritmo influenzerà tutta la sua ispirazione come e più dei dischi di Parker e di Coltrane. A tredici anni è il batterista della migliore orchestra malgascia di jazz, diretta da Jeannot Rabéson, ma il suo sogno è quello di imparare a suonare il sassofono. Si mette di impegno e ce la fa. Frequenta per due anni i corsi di sassofono e composizione al conservatorio (anche se in epoche successive si farà passare per un autodidatta) e alla fine degli anni Sessanta è a Parigi dove si esibisce in un trio al Gill's Club e successivamente suona nei Magma, la formazione di Christian Vander. Non rinuncia, però, a qualche esperienza in proprio come gli Stuff, una band di cui fanno parte, oltre a Vander, Paco Charleri e Claude Engel. Entrerà poi nel progetto Faarmadin poi negli Hamsa e poi in tanti altri progetti che si muoveranno verso il suo obiettivo: liberare la musica jazz dal peccato originale dell'influenza statunitense. Negli anni Settanta così spiega i suoi progetti: «Vorrei dare al pubblico l'equivalente della soul music, ma nel senso più universale, non solo ristretta all'anima nera americana». Nel suo sogno musicale c'è spazio per l'Africa e l'oriente e soprattutto per le suggestioni della musica indiana che si sforza di rendere comprensibile al grande pubblico. Ecco perché ama Shepp ma esprime riserve sul free jazz il cui tempo irregolare non lo convince affatto.


22 novembre, 2024

22 novembre 1950 – Miami Little Steven: il rock è motivazione

Il 22 novembre 1950 nasce a New York "Miami" Little Steven, all'anagrafe Steven Van Zandt, il chitarrista considerato per anni la spalla ideale del Boss Bruce Springsteen. Nonostante sia stato fondamentale per l'allargamento della sua popolarità, il rapporto professionale con Springsteen ha finito, però, per condizionare, non sempre positivamente, la sua carriera. Little Steven muove i primi passi musicali sotto la guida del nonno, l'italoamericano Sam Lento, che gli insegna i segreti della chitarra sulle note dei ritornelli popolari calabresi. La sua formazione musicale si alimenta al calore del rhythm and blues di Gary Davis e Robert Johnson oltre che al jazz tradizionale di Louis Armstrong. A soli quindici anni diventa il cantante e chitarrista degli Shadows, un gruppo del New Jersey da non confondere con la più illustre e omonima band britannica. Un anno d'esperienza gli basta per sentirsi finalmente pronto a formare un proprio gruppo, The Source. Sono gli anni della grande mobilitazione contro la guerra nel Vietnam e Little Steven con la sua band è tra i protagonisti di lunghe kermesse musicali sull'argomento. Suona dovunque, anche se la sua tana è lo Stone Pony, un locale di Asbury Park. Nel 1974 entra a far parte dei Southside Johnny & The Asbury Jukes il gruppo di "Southside" Johnny Lyon. L'anno dopo incontra Bruce Springsteen, artista che ammira da tempo, che lo chiama a far parte della sua E Street Band, in quel periodo impegnata a completare la registrazione dell'album Born to run. Resterà con il Boss per nove anni consecutivi, senza rinunciare però a qualche esperienza per conto suo, prima con gli Asbury Dukes e poi con i Disciples of Soul. Il suo impegno sociale e, soprattutto, la voglia di sperimentarsi senza l'ingombrante presenza di Springsteen lo portano a separarsi amichevolmente dal Boss nel 1984. «Il rock non è intrattenimento, è motivazione». Per questo lui farà sul serio. Pubblicherà album come Freedom no compromise, caratterizzato da un deciso impegno sociale in difesa delle popolazioni oppresse del Sud America e del Sud Africa, ma si mobiliterà anche in progetti più ampi come la registrazione, con decine di stars tra cui lo stesso Springsteen, di Sun City, un brano contro l'apartheid sudafricano. La separazione dal Boss non sarà definitiva. Dopo una lunga serie di "incontri casuali" alla fine degli anni Novanta i due torneranno a esibirsi insieme.


21 novembre, 2024

21 novembre 1987 – T'Pau, la band dal nome vulcaniano

Il 21 novembre 1987 arriva al vertice della classifica dei singoli più venduti in Gran Bretagna China in your hand. Il brano rappresenta la definitiva conferma del successo commerciale dei T'Pau, una band che ha poco più di un anno di vita e che ha ispirato il suo nome a quello di una principessa vulcaniana della serie televisiva "Star Trek". Pur essendo di fresca costituzione il gruppo è composto da una serie di navigati musicisti con una lunga esperienza: la più "vecchia" è la trentenne cantante Carol Decker, ma gli altri non scendono sotto i venticinque anni. Al momento della sua nascita la formazione comprende, infatti, il bassista Paul Jackson, il tastierista Michael Chetwood, il batterista Tim Burgess e i chitarristi Ronnie Rogers e Taj Wyzgowski, quest'ultimo sostituito dopo qualche mese da Dean Howard. L'idea originaria è quella di formare una band che consenta loro di divertirsi suonando la musica che più amano, ma di non rinunciare alla possibilità di guadagnare anche qualche soldo in più. I risultati vanno al di là delle più rosee previsioni. Dopo un paio di singoli passati inosservati i T'Pau diventano una delle band-rivelazione del 1987 grazie al successo del singolo China in your hand e, soprattutto, dell'album Bridge of spies. L'improvviso e un po' imprevisto successo spinge la loro casa discografica a tentare il lancio della band anche negli Stati Uniti dove l'album, pubblicato con il titolo inspiegabilmente cambiato in T'Pau, pur entrando nella classifica dei dischi più venduti, non ripete i trionfi britannici. Meglio va al singolo Heart and soul, ma complessivamente si ha l'impressione che la loro musica non sia fatta per gli States. A dispetto di chi prevede una lunga carriera di successi, i T'Pau, dopo la pubblicazione del secondo album Rage, fortunato almeno quanto il primo, e di una terna di singoli, scompaiono praticamente nel nulla. Il silenzio discografico durerà per ben tre anni e, nel 1991, il ritorno in sala di registrazione delude le attese. Il loro terzo album The promise, infatti, appare stancamente ripetitivo e privo della freschezza che caratterizzava le loro precedenti registrazioni, viene stroncato dalla critica e ignorato dal pubblico. Pochi mesi dopo i T'Pau si sciolgono. Nel 1993 si parlerà ancora di loro quando verrà pubblicato l'antologico Heart and soul - The very best of T'Pau, con alcuni brani registrati dal vivo all'Hammersmith di Londra nel mese di marzo del 1988.

20 novembre, 2024

20 novembre 1960 – Quando Pier Paolo Pasolini difese Claudio Villa

Alla fine degli anni Cinquanta, nel pieno della sua battaglia contro le innovazioni indotte dal consumismo e dai modelli americani Pier Paolo Pasolini difende pubblicamente Claudio Villa sottoposto a una sorta di “processo” dal settimanale “Sorrisi e Canzoni”. Il cantante è accusato di essere espressione di forme artistiche sorpassate con l’aggravante di avere un atteggiamento aggressivo da “bullo” di periferia. Pasolini decide di prendere posizione e la sua firma prestigiosa compare in calce a un’arringa difensiva passata alla storia come un’appassionata dichiarazione di amore e di stima per il cantante. Questo è il testo pubblicato il 20 novembre 1960 sul n. 47 di “Sorrisi e Canzoni” e firmato per esteso da Pier Paolo Pasolini: «Mi piace il repertorio delle canzoni melodiche di Claudio Villa, perché mi piace il pubblico che ama questo stile popolare e verace. Approvo anche che Villa si scriva, si musichi e si interpreti le sue canzoni. Lui lo fa “nel suo piccolo”, come Charlot ha fatto “nel suo grande”. In quanto agli atteggiamenti da bullo, alla sua presunzione e agli atteggiamenti di sufficienza che si imputano al capo d’accusa numero due, io trovo che nella sua qualità di attore-cantante e di personaggio dello spettacolo, tali atteggiamenti gli si addicano, perché fanno, appunto, spettacolo. Disapprovo invece che Villa si dia a interpretazioni del genere urlato, anche perché io credo nella canzone come mezzo verace di espressione, e penso che il genere urlato non sia genuino. Vorrei che Claudio Villa fosse assolto, perché i cantanti mi sono simpatici e amo le canzoni».



19 novembre, 2024

19 novembre 1977 – Sonny Criss, uno dei più fedeli seguaci dello stile di Charlie Parke

Il 19 novembre 1977 muore il sassofonista Sonny Criss. Nato a Memphis, nel Tennessee il 23 ottobre 1927 viene registrato all’anagrafe con il nome di William Criss. Nel 1942 si trasferisce a Los Angeles dove comincia a suonare nelle ore libere con Shifty Henry. Terminati gli studi nell'inverno del 1946, Criss lavora con Sammy Yates, Johnny Otis, Howard McGhee, Al Killian, con un piccolo gruppo formato da Billy Eckstine al Billy Berg's e con Gerald Wilson. Nel 1948 viene chiamato da Norman Granz e compie diverse tournée con il Jazz at the Philharmonic, compresa anche agli inizi del 1950 quella con Billy Eckstine. Suona come indipendente a Los Angeles fino a quando viene scritturato da Stan Kenton per il Jazz Showcase '55, dopo di che dirige per un paio di anni gruppi sotto suo nome. L'anno successiva è a New York e in altre città della costa orientale con Buddy Rich e, nel 1959, torna a formare un proprio complesso. Partecipa a qualche trasmissione televisiva, chiamato da Bobby Troup, e appare in Europa tra il 1962 e il 1965. Tornato a Los Angeles continua il suo lavoro come free-lance dedicandosi, a partire dagli anni Settanta, all'insegnamento, anche a mezzo conferenze, rivolte ai giovani ottenendo numerosi riconoscimenti. Nel 1973 torna in Europa per esibirsi in numerosi concerti e registrazioni radiotelevisive. Di nuovo negli Stati Uniti continua la sua opera di insegnamento tornando poi in Europa e stabilendosi a Parigi nel 1974. Nella sua carriera ha inciso con Charlie Parker, Flip Phillips, Wardell Gray, Tommy Turk, Ralph Burns, Hollywood Jazz Concert e, sotto suo nome, per Mercury, Prestige, Impulse, Clef, Muse. Sonny Criss è considerato uno dei più fedeli seguaci dello stile di Charlie Parker, insieme a Sonny Stitt.




18 novembre, 2024

18 novembre 1960 – Kim, la figlia di Marty Wilde

Il 18 novembre 1960 a Londra nasce Kim Wilde, figlia di Marty Wilde, un cantante molto popolare in Gran Bretagna tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta. La ragazza debutta come cantante nel 1981, all'età di vent'anni. Ben sostenuta da brani composti da suo padre e dal fratello Ricky Wilde, che le fa anche da produttore e chitarrista, Kim porta rapidamente in classifica i singoli Kids in America, Chequered love, Water glass/Boys, Cambodia e l'album Kim Wilde. Aiutata anche dalla sua bellezza mantiene la sua popolarità anche negli anni seguenti con gli album Catch as catch can, Teases and dares, The very best of , Another step, Close, Love moves, Love is holy e con l'antologico The singles collection 1981-1993. I suoi singoli di maggior successo sono View from a bridge, Love blonde, Rage to love, You keep me hangin' on, You came, Never trust a stranger e Four letter word, oltre al duetto con l'attore britannico Mel Smith in Rockin' around the Christmas Tree. Negli Stati Uniti i suoi album non sono mai andati oltre il trentesimo posto in classifica, nonostante il grande successo di You keep me hangin' on che nel 1987 è arrivato al primo posto della classifica dei singoli.



17 novembre, 2024

17 novembre 1962 - Rita Pavone nel pallone

Il 17 novembre 1962 arriva al primo posto della classifica italiana dei dischi più venduti una canzone destinata a diventare una sorta di longseller senza età. Il brano si intitola La partita di pallone. Ne sono autori Carlo Alberto Rossi ed Edoardo Vianello e non è neppure una novità, visto che qualche tempo prima è stato inciso da Cocky Mazzetti senza risultati apprezzabili. Se la canzone è la stessa, cosa è cambiato? Tutto. Per prima l'interprete. Al posto dell'urlatrice melodica Cocky Mazzetti c'è Rita Pavone, una scatenata e lentigginosa diciassettenne torinese dalla voce esplosiva scoperta da Teddy Reno al Festival degli Sconosciuti di Ariccia. La RCA italiana, intenzionata a catturare il pubblico degli adolescenti, capisce fin dal primo momento che la ragazza può rompere gli schemi che fino ad allora hanno caratterizzato la presenza femminile nella canzone italiana e si adegua. Il secondo elemento di novità, funzionale al primo, è l'arrangiamento del brano affidato a Luis Enriquez Bacalov e costruito apposta per far suonare il disco a volume altissimo nei juke box. L'intenzione è esplicita fin dai quattro colpi di cassa che ne costituiscono l'avvio. Il livello della registrazione, superiore di quasi quattro volte alla norma, fa il resto. Quando viene gettonato nei juke box il brano non può non essere notato. In pochi giorni il disco vende più di un milione di copie e Rita Pavone diventa una star grazie anche al fatto che viene scelta, insieme a Gianni Morandi, come conduttrice di "Alta pressione", il primo programma televisivo scritto e pensato per gli adolescenti.



16 novembre, 2024

16 novembre 1967 - Jimmy Archey, il trombone di "This is jazz"

Il 6 novembre 1967 muore nel New Jersey il trombonista James Archey, detto Jimmy. Nato a Norfolk, in Virginia, il 12 ottobre 1902 deve la maggior parte della sua grande popolarità a Rudi Blesh che nel 1947 lo chiama a far parte del gruppo stabile del programma radiofonico “This Is Jazz”, nel quale si esibiscono tutte le stelle del jazz tradizionale. Dopo aver frequentato l'Hampton Institute ottiene la sua prima scrittura a sedici anni nell’orchestra di Edgar Hayes. Successivamente dopo aver suonato nelle orchestre di Arthur Gibbs e di Joe Steele, nel 1928 entra nella formazione di King Oliver con la quale resta fino al 1937. Non è quello il periodo migliore per la big band di Oliver che sembra aver perso molto dello smalto di un tempo e tende a vivacchiare sull'antica gloria. L'orchestra appare prigioniera degli umori e delle ansie del suo leader che fatica a stare al passo con i tempi e non accetta di buon grado l'irrompere sulla scena di altri cornettisti, primo fra tutti il suo amico e avversario Louis Armstrong. Nonostante tutto questa esperienza consente però ad Archey di apprendere e assimilare gli elementi più positivi del "New Orleans Style" anche se la sua versatilità lo porterà progressivamente ad allontanarsi dalla classicità un po' rigida per diventare uno degli esponenti del più moderno, pur se fedele ai canoni del jazz tradizionale, "Harlem Style". Alla sua evoluzione non è estranea la partecipazione alla fase originaria dello swing con le orchestre di Oliver e di Russell. Chiusa l'esperienza con Oliver e Russell suona nel già citato gruppo del programma radiofonico “This Is Jazz” e, senza troppi impegni, con Armstrong, Willie Bryant, Benny Carter, Claude Hopkins e Milton Mezzrow. Nel 1955 entra a far parte dell'orchestra di Earl Hines con la quale resta fino al 1962, anno in cui deve rallentare l'attività perché le sue condizioni di salute cominciano a peggiorare.

15 novembre, 2024

15 novembre 1913 – Gus Johnson, il batterista prodigio

Il 15 novembre 1913 nasce a Tyler, nel Texas, il batterista Gus Johnson. Ha ancora i calzoncini corti quando, viste le sue inclinazioni musicali, la famiglia vorrebbe farne un concertista di pianoforte, ma il bambino ha già altre idee. Alle noiose ore di studio dietro la tastiera preferisce la dirompente semplicità delle strutture ritmiche. Appena può si dedica allo studio di basso e batteria. È soprattutto quest'ultima a solleticare la sua curiosità. Ben presto anche la sua famiglia si deve arrendere all'evidenza, soprattutto dopo averlo visto all'opera al Lincoln Theatre di Houston. È il 1923 e il piccolo Gus Johnson ha soltanto dieci anni ma percuote rullanti, tamburi e piatti con il piglio del professionista consumato. La popolarità del batterista prodigio si allarga finché nessuno fa più caso alla sua età, tanto che nel 1925 il dodicenne Johnson suona con i McDavid’s Blue Rhythm Boys. Negli anni successivi lo si ritrova con le band di alcuni dei personaggi più significativi di quel periodo come Lloyd Hunter o Ernest "Speck" Redd. Nel 1938 viene scritturato a Kansas City dalla grande e popolarissima orchestra di Jay Mc Shann, con la quale rimane fino al 1943, anno in cui gli Stati Uniti gli mettono una divisa e lo mandano a combattere nella Seconda Guerra Mondiale. Due anni dopo torna alla vita civile e cerca di ritessere i contatti con l'ambiente musicale. Per la verità non deve faticare molto per trovare il primo ingaggio da parte della band di Jesse Miller. Nel 1947 suona nell’ultima grande orchestra di Earl Hines e, successivamente, con Cootie Williams. A partire dal 1949 diventa il batterista preferito di Count Basie che lo vuole con sé sia nella sua big band che nei gruppi più ristretti. Il sodalizio con Basie dura un quinquennio, poi se ne va, deciso a lavorare come indipendente sulla piazza di New York. Varie esperienze in studio precedono il suo ritorno dal vivo. Dopo una breve collaborazione con Lena Horne, nel 1957 accetta le offerte di Ella Fitzgerald con la quale resta per un paio d'anni. Nel 1959 è il batterista dell’orchestra di Woody Herman, ma anche questa esperienza non durerà più di un anno. Orgoglioso della sua indipendenza preferisce il lavoro in studio di registrazione ai ritmi forzati delle tournée. Dopo aver suonato con Gerry Mulligan alla fine degli anni Sessanta è uno dei protagonisti della World’s Greatest Jazz Band. Nel 1974 se ne andrà a Denver ma non terrà mai completamente fede ai ripetuti annunci di ritiro dalle scene.


14 novembre, 2024

14 novembre 1970 - L'irrequieto Ian Matthews al vertice delle classifiche di vendita

Il 14 novembre 1970 al vertice della classifica britannica arriva Woodstock, un suggestivo brano scritto da Joni Mitchell. Non lo interpreta la sua autrice, ma una band fino a quel momento sconosciuta che risponde al nome di Matthew's Southern Comfort. Dietro alla sigla c'è l'irrequieto Ian Matthews che ha appena lasciato i Fairport Convention per debuttare come solista. La band è nata quasi per caso assemblando i musicisti che hanno lavorato con lui alla registrazione del suo primo album: il chitarrista Mark Griffiths, il chitarrista Carl Barnwell, il bassista Andy Leigh, il batterista Ray Duffy e il percussionista Gordon Huntley. L'inaspettato successo di Woodstock lo convince a rinviare per un po' i progetti solistici e a dare continuità al lavoro di gruppo. Quando se ne andrà i suoi compagni, diventati semplicemente Southern Comfort, andranno avanti per conto loro fino al 1972 pubblicando ben tre album: Southern Comfort, Frog city e Stir don't shake. La carriera solistica di Ian Matthews, invece, non sarà accompagnata da troppa fortuna tanto che, dopo due album di scarso successo, il ragazzo cambierà idea e formerà una nuova band, i Plaisong, insieme ai tre chitarristi Dave Richards, Andy Roberts e Bobby Ronga. Scontento e deluso anche da questa esperienza continuerà da solo per il resto degli anni Settanta. All'inizio del decennio successivo una controversia legale con la casa discografica Mushroom lo costringerà a un forzato periodo di silenzio discografico, durante il quale lavorerà al Dipartimento Arte e Repertorio della Island di Los Angeles.

13 novembre, 2024

13 novembre 2000 - "One" dei Beatles? Un affare commerciale

Dopo molte anticipazioni e annunci il 13 novembre 2000 esce One, l'antologia dei successi dei Beatles che, come recita il comunicato stampa della EMI, «riunisce i loro ventisette singoli numeri uno in classifica». Si completa così una grande operazione di marketing iniziata con il volume dell'autobiografia "ufficiale". L'album, che schizza rapidamente i vertici delle classifiche di vendita in moltissimi paesi, punta chiaramente a strappare a Thriller di Michael Jackson il record del "disco più venduto di tutti i tempi". In realtà One non aggiunge niente di nuovo alla leggenda dei Fab Four, anche se i brani sono conosciuti, belli e rimasterizzati con cura. In più, a dispetto dei comunicati stampa, il disco non raccoglie davvero «tutti i singoli arrivati al primo posto in classifica». Nella track list infatti c'è da rilevare l'assenza, apparentemente inspiegabile, di Rain e Strawberry fields forever. In realtà una ragione c'è ed è spiegabilissima: l'intera operazione è stata accuratamente studiata a tavolino per arrivare al vertice delle classifiche e tentare il record. In breve: con ventisette brani si arriva al limite della capienza di un normale compact disc. Con l'inserimento dei due brani mancanti l'album avrebbe dovuto essere sdoppiato in due Cd e il maggior costo di vendita avrebbe reso impossibile l'assalto al record di "disco più venduto di tutti i tempi". Si è perciò preferito una sorta di "falso storico" di successo a un'antologia corretta, ma non da record. Nonostante tutto però One un modesto valore aggiunto ce l'ha: contiene le famose foto di John, Paul, George e Ringo scattate da Richard Avedon. Per chi s'accontenta...



12 novembre, 2024

12 novembre 1988 – Wild Wild West

Il 12 novembre 1988 al vertice della classifica statunitense dei dischi più venduti c’è il brano Wild wild west realizzato da una band britannica poco conosciuta al grande pubblico. Sono gli Escape Club e sono stati formati a Londra cinque anni prima dal cantante Trevor Steel, dal chitarrista John Holliday, dal bassista Johnnie Christo e dal batterista Milan Zekavica. Agli inizi della loro storia i quattro non se la passano benissimo. Come molti altri suonano nei locali e sognano di diventare famosi con i dischi. Le prime esperienze in sala di registrazione avvengono tra le accoglienti ma poco significative mura di un'etichetta indipendente che pubblica il loro primo singolo destinato a restare una sorta di demo. Va meglio il passo successivo quando il secondo singolo Rescue me e l'album White fields riescono a trovare spazio nella ristretta cerchia degli appassionati e portano in regalo l’inserimento degli Escape Club in qualche elenco dei i gruppi - rivelazione del momento elaborato dalle riviste di nicchia. Pur apprezzati sembrano destinati a una tranquilla carriera nei club e in qualche concerto senza grandi exploit né sul piano commerciale né su quello della popolarità planetaria. Quando non se l’aspettano più arriva la svolta. Nel corso di un’esibizione vengono notati da Chris Kinsey, un produttore che ha all’attivo, tra gli altri, alcune cose dei Rolling Stones, di Peter Frampton e degli Psychedelic Furs. Kinsey capisce che i ragazzi hanno qualità da vendere e li convince a mollare gli stretti confini della Gran Bretagna per attraversare l’oceano. Profondo conoscitore del grande business degli States li segue con cura nella realizzazione dell’album che dovrebbe segnare l’inizio del grande successo. Il risultato è all’altezza delle aspettative. La canzone Wild wild west si piazza al vertice della classifica dei dischi più venduti seguita dall'album omonimo che fa faville nei negozi. Osannati dal pubblico e trattati con garbo dalla critica gli Escape Club non manterranno le promesse. Wild wild west resterà un episodio isolato. Tre anni dopo, nel 1991 l’album Dollars and sex verrà accolto piuttosto freddamente nonostante il discreto successo di vendita del singolo I'll be There.

11 novembre, 2024

11 novembre 1944 - Jesse Colin Young, l’anima e il cuore degli Youngbloods

L’11 novembre 1944 nasce a New York Jesse Colin Young, registrato all’anagrafe con il nome di Perry Miller, l’anima e il cuore degli Youngbloods, uno dei gruppi più rappresentativi del folk-jazz della costa dell’Est statunitense. La sua avventura musicale muove i primi passi all’inizio degli anni Sessanta quando abbandona l'università per cantare, accompagnandosi con la chitarra, nei folk club. Nel 1964 pubblica il suo primo album, Soul of a city boy, seguito, l'anno dopo, da Youngblood, un titolo premonitore. Proprio nel 1965, infatti, Jesse conosce il chitarrista Jerry Corbitt con il quale forma, insieme al batterista di scuola jazz Joe Bauer, il primo nucleo degli Youngbloods. Il gruppo attira rapidamente l'attenzione di pubblico e critica grazie alla sua originale fusione di folk e jazz. La sua qualità artistica si fa ancora più solida e convincente dopo l’arrivo di un quarto componente, il chitarrista e tastierista “Banana” Lowell Levinger. Nel 1966 gli Youngbloods, ormai considerati una delle band più interessanti della East Coast, iniziano a lavorare alla registrazione del loro primo album. Il perfezionismo di Jesse e dei suoi compagni ritarda a lungo l’uscita del disco e solo all’inizio del 1967 vede la luce The Youngbloods, accompagnato dal singolo Grizzly bear. Pochi mesi dopo viene messo sul mercato un secondo album, ma la band è ormai affascinata dai nuovi fermenti musicali e culturali che stanno attraversando l’intero panorama musicale statunitense. Lasciano New York, città che sentono stretta e troppo statica per potersi esprimere compiutamente, e se ne vanno a San Francisco. Qui gli Youngbloods perdono Jerry Corbitt, che tenterà senza grande fortuna la carriera di solista, e diventano un trio. Nel 1969 centrano il maggior successo commerciale della loro storia con una nuova versione di Get together, un brano già inserito nel loro primo album del 1967. Nonostante i buoni risultati il gruppo è ormai entrato in fase calante. A nulla serve l'inserimento in formazione del bassista Michael Kane. Gli Youngbloods si separano alla fine del 1971. L’ultimo album ufficiale, Good and dusty vede la luce dopo lo scioglimento della band. Jesse Colin Young continua come solista ma non rinuncia all’idea di riformare il gruppo. Ci riuscirà negli anni Ottanta, ma gli scarsi risultati lo convinceranno a lasciar perdere e a continuare da solo sulla sua strada.